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martedì 26 febbraio 2013

Happy Gay - Un'analisi approfondita

In questo post vi propongo un articolo molto lungo, anche molto impegnativo, ma che mette tantissima carne al fuoco sulla condizione gay nella nostra società.
Gli spunti son tanti, troppi, forse va riletto più e più volte, forse alla maggior parte di voi non interesserà. Ma lo lascio pubblicato qui, come interessantissimo e stimolante documento da spulciare, meditare, conservare.
Per crescere in consapevolezza.

Dalle persecuzioni degli anni cinquanta al riconoscimento del matrimonio. In pochi decenni la vita degli omosessuali in America è cambiata in modo sbalorditivo. Il racconto di un testimone d’eccezione

Alex Ross, The New Yorker, Stati Uniti - Foto di Molly Landreth
da INTERNAZIONALE, n° 986



Una settimana dopo l’elezione di Barack Obama sono andato a un festival di musica all’Arizona state university di Tempe, in Arizona. Era un weekend lungo – la festività del Veterans day cadeva il martedì – e migliaia di studenti avevano invaso il centro della città. L’evento principale del festival è durato parecchio, e verso mezzanotte sono andato con lo scrittore e regista Paul Festa a cercare un posto dove mangiare. Siamo riusciti a trovare solo un fast-food. 
Abbiamo ordinato senza scendere dall’auto, al drive-through. Accanto a noi c’era un’auto ferma piena di studenti. Poco dopo un’altra macchina ha imboccato contromano il vialetto, rombando, e ha frenato con una sgommata. Un ragazzo alto, biondo e visibilmente ubriaco, con la classica tenuta da college (jeans e maglietta sopra una maglia a maniche lunghe), è uscito barcollando e ha urlato: “Un figlio di puttana mi ha chiamato frocio!”. Il cassiere ha dato a Paul il suo milk-shake alla fragola. Paul e io siamo entrambi gay. Ci siamo scambiati uno sguardo preoccupato mentre il ragazzo andava avanti. 
“I miei genitori mi hanno tirato su bene”, ha continuato il biondo rivolgendosi agli studenti dell’altra auto, evidentemente suoi amici. “E io sono fiero di quello che sono”. Paul e io ci siamo guardati di nuovo, stavolta con stupore. 
Un tizio muscoloso, con la faccia torva e un cappellino da baseball messo al contrario, è spuntato da dietro l’angolo. Era chiaramente lui ad aver dato del frocio al biondo. “Ti spacco la faccia!”, ha urlato il nuovo arrivato, seguito da un amico. 
Come la maggior parte degli omosessuali, anche io a volte mi sono sentito chiamare frocio. E ho visto amici rispondere a insulti omofobi. Ma non avevo mai assistito a nulla del genere: la scena sprigionava una strana e intensa teatralità, come se un regista stesse spronando il ragazzo da dietro le quinte.
“Come ti permetti?”, ha strillato il biondo. “I nostri antenati sono venuti in questo paese per sfuggire alle loro religioni ed essere liberi. Come ti permetti, stronzo! Non sai che questo è il paese delle pari opportunità? Tornatene nel tuo cazzo di Connecticut con le tue due macchine e il garage!”.
Il tipo muscoloso si è sgonfiato di fronte a quell’invettiva quasi sensata. Ha alzato le spalle guardando l’amico e si è allontanato insieme a lui. Il ragazzo biondo li ha seguiti incespicando per un paio di minuti, continuando
a sbraitare: “In questo paese posso sposare chi mi pare! Perché questo paese sta cambiando!”.
Ha continuato a strepitare anche dopo che i suoi nemici erano scomparsi, con il viso illuminato da una rabbia euforica. Alla fine i suoi amici lo hanno calmato e il gruppo se n’è andato.

Ho quarantaquattro anni e nella mia vita ho assistito a una trasformazione sbalorditiva della condizione degli omosessuali, uomini e donne, negli Stati Uniti. Quando sono nato, i rapporti omosessuali erano vietati in tutti gli stati tranne che nell’Illinois. Lesbiche e gay non potevano lavorare per il governo federale. Non esistevano politici dichiaratamente gay. Alcuni omosessuali non dichiarati occupavano posti di rilievo, ma di fatto rendevano la vita ancora più dificile agli altri omosessuali. Perfino i mezzi d’informazione progressisti ironizzavano sull’omosessualità. Sulla New York Review of Books lo scrittore Philip Roth denunciava “l’atroce retorica da checche” del drammaturgo Edward Albee, mentre una copertina di Time liquidava il mondo gay definendolo un “surrogato patetico e di second’ordine della realtà, una pietosa fuga dalla vita”. Il best seller di David Reuben Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (ma non avete mai osato chiedere) – un libro del 1969 che ricordo di aver studiato, tremante, in biblioteca – spiegava: “Se un omosessuale che vuole rinunciare all’omosessualità incontra uno psichiatra che sa curare l’omosessualità, può benissimo diventare un eterosessuale felice e socialmente realizzato”.
Verso la metà degli anni ottanta, quando cominciavo ad accettare la mia sessualità, c’erano alcuni politici gay, molti stati avevano abolito le leggi che criminalizzavano la sodomia e diversi personaggi famosi avevano fatto coming out (Martina Navratilova lo fece nel 1981). Ma le crociate antigay della destra religiosa rischiavano di invertire la tendenza. Nel 1986 la corte suprema, confermando la legge sulla sodomia della Georgia, liquidò il concetto di protezione costituzionale della sessualità dei gay come “tutt’al più uno scherzo”. L’aids stava uccidendo migliaia di omosessuali ogni anno. La reazione iniziale dell’amministrazione Reagan – e dei grandi giornali – è sintetizzata bene in una conferenza stampa del portavoce della Casa Bianca, Larry Speakes, nell’ottobre del 1982:
Domanda: “Larry, il presidente ha qualcosa da dire sull’annuncio dei Centers for diseasecontrol di Atlanta, secondo cui l’aids è ormai un’epidemia con più di 600 casi segnalati?”.Speakes: “Cos’è l’aids?”.Domanda: “Oltre un terzo dei malati è morto. È chiamata la ‘piaga dei gay’” (risata).“No, davvero. Insomma, è abbastanza grave che una persona infetta su tre sia morta. Mi chiedevo se il presidente è al corrente”.Speakes: “Io non sono infetto. Tu?” (risata).
La prima volta che Reagan fece un discorso serio sull’aids, nel 1987, le vittime negli Stati Uniti erano oltre ventimila. La cosa che ricordo di più del mio primo rapporto sessuale è la paura.



Oggi i gay di una certa età possono avere la sensazione di essere sbarcati da una macchina del tempo. È così che mi sono sentito mentre guardavo il ragazzo di Tempe azzittire un omofobo in nome del neoeletto  presidente. Il matrimonio gay è legale in sei stati e a Washington D.C. I gay possono servire nell'esercito senza dover nascondere il loro orientamento sessuale. Hanno dichiarato di essere gay giudici, deputati, sindaci, attori e conduttori televisivi. Al cinema e in tv i personaggi omosessuali ormai sono quasi fastidiosamente onnipresenti. La corte suprema, che ha annullato le leggi sulla sodomia nel 2003, sta  cominciando a esaminare la questione del matrimonio. E la campagna elettorale del 2012 ha dimostrato che per i repubblicani i diritti dei gay non sono più un tema su cui distinguersi dai democratici. Anche se Mitt Romney è contrario al matrimonio gay, non l’ha quasi mai sottolineato. Se oggi trentadue persone fossero uccise in un bar gay, sia Obama sia Romney esprimerebbero il loro cordoglio per le vittime, a differenza delle autorità di New Orleans che nel 1973, dopo che un piromane appiccò il fuoco al bar Upstairs lounge, non batterono ciglio. 
La vita di un gay negli Stati Uniti non è sempre spensierata, soprattutto fuori dalle grandi città. Il peso della destra religiosa è diminuito, ma a volte si fa ancora sentire: ad agosto centinaia di migliaia di persone in tutto il paese si sono messe in fila per comprare un panino da Chick-fil-A, un fast food che attraverso la sua onlus ha versato milioni di dollari ai gruppi antigay. Eppure il progresso, nel campo dei diritti dei gay, è stato così rapido che molti avvertono il bisogno di guardarsi indietro e fare il punto. Di recente sono usciti diversi libri sui cambiamenti degli ultimi decenni. Victory: the triumphant gay revolution di Linda Hirshman ricostruisce la storia di un movimento nato dal nulla intorno al 1950. David Halperin, figura di primo piano degli studi queer, è più nostalgico. Il suo How to be gay è un elogio della cultura camp, caratterizzata dall'ostentazione e dall'apprezzamento consapevole di atteggiamenti e gusti considerati artificiali, volgari o banali , come le pose effeminate e il gusto del kitsch: una sensibilità che molti oggi considerano superata. In God believes in love: straight talk about gay marriage, il vescovo Gene Robinson immagina un futuro in cui i divieti delle scritture giudeo-cristiane saranno scomparsi.

Ragazzini solitari
Secondo una teoria in voga, questo cambiamento sarebbe merito della cultura popolare: i personaggi famosi orgogliosamente omosessuali e le sitcom gay friendly hanno permesso agli statunitensi etero di sentirsi meno a disagio con i loro vicini strani. A maggio dell’anno scorso il vicepresidente Joe Biden si è espresso a favore del matrimonio gay e ha invitato Obama a fare lo stesso: “Le cose cominciano a cambiare davvero quando cambia la cultura sociale”, ha detto. “Penso che Will & Grace abbia contribuito a educare il pubblico statunitense più di qualunque altra cosa”. Eppure fino a poco tempo fa Hollywood rappresentava regolarmente i gay e le lesbiche come un esercito di femminucce esagitate, serial killer e aspiranti suicidi. Vito Russo ha analizzato questa tendenza nel suo libro Lo schermo velato, del 1981. Dieci anni dopo ho partecipato a una manifestazione organizzata dal circolo di Queer Nation di San Francisco contro il film Basic instinct, girato in città, che parlava di assassine lesbiche. La mia carriera di attivista è finita lì, ma la protesta ha fatto strada. L’industria dell’intrattenimento ha recuperato il terreno perso rispetto alla nuova realtà sociale.
Le persone tridimensionali sono più convincenti di quelle bidimensionali, come Biden sicuramente sa. È quindi più probabile che il merito del cambiamento sia delle migliaia di gay che anno dopo anno si sono decisi a fare l’imbarazzato annuncio a parenti e amici, sgombrando il campo da certe folcloristiche immagini di disgusto. Il mio principale atto politico è racchiuso nelle lunghe e tetre lettere che scrissi agli amici più cari, decidendomi a rivelare l’altra parte di me. In una di queste lettere il coming out arrivava in una nota della settima pagina, nel bel mezzo di una citazione di Wallace Stevens: “La più grande povertà è non vivere/ in un mondo fisico, sentire che è troppo difficile/distinguere il desiderio dalla disperazione”. Harvey Milk diceva sempre che la rivoluzione si sarebbe compiuta così: un ragazzino solitario dopo l’altro.
Un tempo innominabili, i comportamenti associati all'omosessualità sono più antichi di quanto la storia ricordi. Il concetto di un’identità omosessuale distinta, invece, è un’invenzione piuttosto recente. Fino all’ottocento a nessuno sarebbe venuto in mente di dividere l’umanità tra chi desidera le persone dello stesso sesso e chi desidera quelle del sesso opposto. Prima di allora regnava la confusione. Gli atti omosessuali, proibiti quasi ovunque, raramente erano puniti. Tra il 1786 e il 1873 ci furono solo venti processi per sodomia a New York. Nel suo classico Gay New York, lo storico George Chauncey descrive una metropoli di fine ottocento disinvolta, in cui scapoli di tutte le classi sociali si divertivano con le fairies (fate) – uomini appariscenti, spesso travestiti, passivi nei rapporti sessuali – in assenza di donne facilmente disponibili. Le relazioni lesbiche potevano sbocciare dietro la maschera dei matrimoni bostoniani: amicizie socialmente accettabili tra donne non sposate, il cui nome rimanda all'intenso rapporto tra Olive Chancellor e VerenaTarrant nel romanzo di Henry James I bostoniani.
Il movimento gay statunitense s’ispirò alla Germania dove, nel 1867, uno studioso di legge dissidente, Karl Heinrich Ulrichs, si presentò al congresso dei giuristi tedeschi, a Monaco, per chiedere l’annullamento delle
leggi sulla sodomia. Ulrichs fu coperto di fischi, ma alla fine del secolo Magnus Hirsch feld creò la prima organizzazione per i diritti dei gay a Berlino. A Chicago, nel 1924, un immigrato tedesco di nome Henry
Gerber, che aveva studiato l’organizzazione di Hirschfeld, fondò una Società per i diritti umani. Presto fu presa di mira dalla polizia, mentre i giornali inorridivano parlando di un “culto del sesso strano”. Nonostante tutto, nelle grandi città le sottoculture gay crescevano senza dare troppo nell’occhio. A New York, alla fine degli anni venti, la vita gay era diventata quasi chic. I balli dei travestiti erano pieni di curiosi, Mae West
sfoggiava i suoi amici omosessuali e a midtown tutti andavano pazzi per la star del cabaret Jean Malin che, travestito da donna, cantava I'd rather be spannish than mannish
Quella prima apertura scatenò una violenta ondata di repressione. Il libro di Chauncey descrive bene l’improvviso e rivoltante voltafaccia della società progressista: come se la presa di coscienza collettiva provocata dalla grande depressione e dalla seconda guerra mondiale avesse richiesto l’allontanamento di un capro espiatorio. New York approvò nuove leggi contro il travestitismo, gli spettacoli di omosessuali e i
ritrovi gay. La polizia poteva chiudere un locale se sentiva parlare uomini con voce acuta. Negli anni trenta il regolamento della Motion Picture Production vietava qualunque allusione all’omosessualità. Grandi nomi della psichiatria, abbandonando la posizione di Freud, che non aveva mai davvero giudicato gli omosessuali, li presentavano come “psicopatici sessuali”. Furono sperimentati trattamenti a base di farmaci, elettroshock, iniezioni di ormoni, castrazione e lobotomia. Una delle sedi di queste sperimentazioni, l’ospedale pubblico di
Atascadero, in California, sarebbe stato battezzato “Dachau dei queer”. 
L’isterismo raggiunse il culmine negli anni cinquanta, quando i politici fecero propria l’idea che lesbiche e gay fossero una minaccia per la sicurezza. Il senatore Joseph McCarthy lanciò la caccia alle streghe dopo aver notato la presenza di omosessuali nella sua famigerata lista di comunisti al dipartimento di stato. Nel 1953 il presidente Dwight Eisenhower firmò l’ordine esecutivo 10450, che vietava, tra le altre cose, la “perversione sessuale” nell’amministrazione pubblica. La conseguenza, secondo lo storico David Johnson, fu che circa cinquemila persone persero il lavoro. Il romanzo di Allen Drury Advise and consent (poi diventato un film) racconta la storia, romanzata, del senatore del Wyoming Lester Hunt, che si uccise dopo che Tyle Bridges,senatore del New Hampshire, aveva minacciato di rivelare l’omosessualità del figlio. 

Prima e dopo Stonewall 
Nonostante l’atmosfera opprimente, la cultura gay prese una piega nuova, più esplicita. L’inquisizione potrebbe perfino aver accelerato il processo. La domanda rivolta agli aspiranti militari durante la seconda guerra mondiale – “Sei gay?” – risvegliò la loro consapevolezza invece di soffocarla. I soldati semplici che portavano il marchio dell’“esonero blu”, legato al comportamento omosessuale, non avevano nulla da perdere dichiarandosi gay. Le lesbiche si sentivano incoraggiate dallo stravolgimento nei ruoli di genere all’epoca di Rosie the Riveter ed Eleanor Roosevelt. Alcuni grandi nomi della letteratura fecero coming out: prima di Gore Vidal e Truman Capote ci fu il poeta Robert Duncan, che nel suo saggio del 1944 The homosexual in society chiedeva ai progressisti di “riconoscere gli omosessuali come loro pari”. 
Negli Stati Uniti la prima organizzazione gay stabile, la Mattachine society, nacque nel 1951 su iniziativa di Harry Hay, un travestito del sud della California che era andato al liceo con John Cage e insegnava musica al People’s educational center di Los Angeles. In Victory, Linda Hirshman ricorda divertita che Hay s’ispirò agli scritti di un acceso omofobo come Stalin, in particolare alla sua definizione di nazione: “Una comunità di lingua, di territorio, di vita economica e di conformazione psichica, che si manifesta nella comune cultura”. Partendo da qui, Hay decise che doveva esistere anche una nazione gay. Il nome Mattachine nel Rinascimento indicava delle compagnie di ballerini vestiti come giullari. L’approccio radicale di Hay provocò presto dei dissensi interni, e i membri di Mattachine si spostarono su posizioni meno antagoniste. In pubblico ci tenevano ad apparire rispettabili, in giacca e cravatta. Le Daughters of Biltis, un’organizzazione di lesbiche sulla stessa linea, invitavano le nuove aderenti a non indossare abiti maschili. 
Nella versione più diffusa della storia dei diritti gay, le cose cominciarono a cambiare solo nel 1969, quando un’esasperata schiera di lesbiche, drag queen e ragazzi di strada scatenò una rivolta allo Stonewall Inn, un bar gay del West Village, a New York. Una delle qualità del libro di Hirshman è che rende omaggio agli attivisti del periodo pre Stonewall, quando esporsi pubblicamente richiedeva un notevole coraggio. Alcune vittorie politiche e legali – come la decisione della corte suprema del 1958 di scagionare la rivista gay One dall’accusa di pubblicare materiale osceno – erano conquiste piccole ma non facili. Hirshman sottolinea anche l’impegno della Glide memorial church, una congregazione metodista progressista di San Francisco. Quando la polizia minacciò i partecipanti a un ballo gay di capodanno, alla vigilia del 1964, i pastori denunciarono il fatto come “il più eccessivo abuso di polizia degli ultimi tempi”. 
Il capo della sede di Washington della Mattachine society era Frank Kameny, un astronomo e veterano dell’esercito che aveva perso il suo posto nell'amministrazione pubblica durante le purghe degli anni cinquanta. Nei primi anni sessanta cominciò a spedire il bollettino dell’organizzazione all'ufficio di J. Edgar Hoover, il direttore dell’Fbi. Quando un agente fece sapere a Kameny che Hoover desiderava essere rimosso dalla lista degli abbonati, Kameny rispose che avrebbe sottoposto la richiesta al consiglio direttivo, e un altro membro della Mattachine aggiunse che Hoover era il benvenuto al prossimo congresso dell’organizzazione. Gli invii continuarono, e da parte del più temuto uomo di Washington non ci furono altre reazioni a quella velata allusione. Più di qualunque altro attivista della sua epoca, Kameny insisteva sul fatto che i gay dovevano tutti dichiararsi tali. È morto nel 2011, a ottantasei anni.
Il fermento degli anni sessanta permise alla nuova generazione di lesbiche e gay di lasciar perdere la cortesia di facciata: il “potere nero” diede vita al “potere frocio” e al “potere lesbico”. Ma i leader della sinistra non si precipitarono al fianco dell’ultima minoranza insorta. La femminista Betty Friedan considerava le lesbiche una “lavender menace” (una minaccia color lavanda, fiore e colore associati all’omosessualità). L’attivista e politico Tom Hayden fece capire agli omosessuali che non erano graditi tra gli Students for a democratic society. Quell’isolamento, secondo Hirshman, fu una fortuna. “Più un gruppo si apre alle altre identità e più s’indebolisce”. Il movimento per i diritti gay tirò dritto, tutto d’un pezzo, e passò con sorprendente rapidità dall’oblio sociale alla credibilità morale.

Una vittoria dolorosa
La principale conseguenza di Stonewall fu il corteo che segnò il primo anniversario della rivolta. Nella baldoria sessuale che furono gli anni settanta, la vita gay cominciò a sembrare divertente più che temibile. La politica seguì la tendenza. Gli attivisti diventarono abili manipolatori di giornalisti a caccia di storie sensazionali. La tecnica dello “zap” (le proteste a sorpresa) fu usata con grande efficacia, per esempio al convegno del 1971 dell’Associazione psichiatrica americana. Quando i manifestanti cominciarono a gridare slogan contro le “cure” per gli omosessuali, un partecipante urlò: “Sparite, finocchi!”. Gli psichiatri sembravano di colpo più matti dei loro pazienti. La definizione dell’omosessualità come disturbo mentale fu cancellata due anni dopo. 
L’aids, l’evento centrale nella storia moderna dell’omosessualità, in un primo momento sembrò annunciare il ritorno ai tempi bui. Molti negli Stati Uniti pensavano che i malati andassero messi in quarantena. L’opinionista conservatore William F. Buckley propose di tatuarli sul braccio e sul sedere. Eppure, secondo Hirshman, la reazione a quell’emergenza fu una “dolorosa vittoria politica”. Nel giro di pochi anni, il moltiplicarsi di scene commoventi – compagni in lacrime, famiglie e amici in lutto, la rabbia contenuta di Larry Kramer, uno dei fondatori di Act up (Aids coalition to unleash power) – aveva umanizzato un gruppo di persone generalmente descritte come narcise e senz'anima. I sondaggi dell’epoca sembrano confermare il potere persuasivo di Act up e del suo Aids quilt, l’enorme coperta realizzata in memoria delle persone morte di aids che fu esposta al Washington Mall nel 1987 e poi in tutto il paese. Nel 1988 il 57 per cento degli statunitensi pensava che i rapporti omosessuali dovessero essere illegali. Dopo appena un anno erano solo il 36 per cento.
La tragedia dell’aids incoraggiò anche la lotta per il matrimonio gay. La malattia e la morte mettevano a nudo angoscianti disuguaglianze: i compagni dei malati non avevano il diritto di fare le visite in ospedale o di occuparsi del funerale. Per la generazione omosessuale che venne dopo, la monogamia diventò più importante della promiscuità, almeno in teoria. Nel 1993 Andrew Sullivan, all’epoca direttore di The New Republic, scrisse un articolo diventato famoso, “The politics of homosexuality”, in cui proponeva al movimento di concentrarsi su due punti: il matrimonio gay e gli omosessuali nell’esercito. Battersi per questi obiettivi secondo lui avrebbe assicurato una dignità e una nobiltà altrimenti difficili da raggiungere.
Negli anni novanta l’ipotesi del matrimonio gay sembrava eccentrica e futuristica. Alle elezioni del 2004, quando undici stati approvarono leggi contro il matrimonio gay, sembrò che la campagna subisse una battuta d’arresto. Con il tempo, però, la simultanea enfasi sul matrimonio e sull’esercito ha dato vita a un immaginario politico sempre più potente: anziani omosessuali che chiedevano il riconoscimento di relazioni decennali, ex militari lesbiche che raccontavano le loro storie con soldatesca laconicità. L’effetto nobilitante previsto da Sullivan è arrivato. L’ho sentito nel 2005 quando io e il mio compagno Jonathan Lisecki ci siamo sposati d’impulso durante un viaggio a Toronto. Quando ti sposi, la tua relazione diventa più seria agli occhi di chi ti circonda. Se poi sei gay, l’impatto di quella dichiarazione pubblica è sorprendentemente forte. Gli amici hanno reagito come se avessimo compiuto un gesto quasi eroico. Mi sono reso conto, come all’epoca del mio coming out, che i gesti personali, come onde, si riversano sulla politica.
Ci vuole tempo perché una conquista diventi legge, e l’elezione di Barack Obama non basta per cantare vittoria. Ma la marcia degli amanti, un tempo disordinata, oggi ha un’aria d’inevitabilità. Chi ha fatto coming out all’epoca di Stonewall, però, si chiede cosa andrà perso ora che la comunità si sta lasciando dietro il suo status d’intoccabile. Molti sono sconcertati dall’attuale culto del matrimonio e dell’esercito, due simboli dell’America di Eisenhower che la generazione di Stonewall respingeva. Il mondo gay ha di fronte un problema che ebrei, afroamericani e altri gruppi marginalizzati conoscono da tempo: il prezzo dell’assimilazione.

La caduta della cultura gay
Nel marzo del 2000 David Halperin, docente di inglese all’università del Michigan, stava per cominciare un corso intitolato “Come essere gay. Omosessualità maschile e iniziazione”. Voleva esplorare il modo in cui i gay si definiscono, non sul piano sessuale ma su quello del gusto. Halperin voleva analizzare l’insieme di attività culturali associate alla vita dei gay: il teatro musicale il grand opéra, il cabaret, i film di Bette Davis e Joan Crawford, e vari altri prodotti riuniti sotto la problematica etichetta del camp. Quando la National Review rese noto il programma del corso ci fu una prevedibile esplosione d’isterismo a destra, accompagnata da qualche commento sarcastico nella stampa gay. Per alcuni, quello di Halperin era un pericoloso tentativo di proselitismo, per altri, un pedante studio di un fenomeno macroscopico. L’università del Michigan non mollò e Halperin tenne il corso per anni. How to be gay si apre sul racconto di quella polemica, poi riassume quello che Halperin ha imparato dalla vicenda.
Il libro è quasi interamente dedicato al punto di vista maschile. La sua principale qualità è la messa a fuoco di un argomento poco studiato: la vergogna dei gay per il loro passato, il loro bisogno di farlo sparire. Cresciuto durante gli anni d’oro della liberazione gay, Halperin scrive: “I gay della mia età erano orgogliosi di appartenere a una generazione diversa. Anche se in modo confuso, sapevamo che per molti omosessuali di venti o trent’anni più grandi di noi, essere gay voleva dire apprezzare i musical di Broad way, ascoltare canzoni di Judy Garland o di amori infelici, suonare il piano, indossare maglioni di angora, bere cocktail, fumare sigarette e chiamarsi ‘ragazze’. Ai miei occhi di giovane che sognava di definirsi ‘liberato’, quelle vecchie checche erano tristi resti di un passato di repressione sessuale, vittime dell’emarginazione e del terrore di stato che avevano finito per interiorizzare l’omofobia e odiarsi. All’epoca non mi rendevo conto che la mia indignazione forse nasceva dalle tracce di odio e di omofobia che anch’io avevo interiorizzato”. In seguito Halperin ha riconsiderato il suo rigetto del passato gay. Un fidanzato l’ha introdotto al bagaglio culturale gay e lui si è abbandonato a quel fascino d’altri tempi. Questo racconto toccherà da vicino molti lettori: la storia si ripete. Intorno al 1990, quando ho fatto coming out, la cultura gay macho degli anni settanta sembrava abietta e il mito di Judy Garland antidiluviano. Volevo con tutto me stesso non essere quel tipo di gay. La moda era portare magliette slavate e ascoltare indie rock. Quando lavoravo in un video store frequentato da gay, avevo scandalizzato i miei colleghi rivelando di non aver mai visto Il mago di Oz. All’epoca volevo mettere in moto la mia esistenza sessuale senza cambiare altro di me. Ma capii che la vita di un ragazzo “incidentalmente gay”, come dicono alcuni, può essere solitaria. Il coming out non ti fa sentire a tuo agio nel mondo. Lo stesso vale per il sesso. Abbiamo bisogno di legami che vadano oltre il sesso: una comunità, una cultura, un insieme condiviso di ossessioni.

Come si può essere gay senza aver visto Il romanzo di Mildred o Il mago di Oz? Per rispondere a questa domanda bisogna capire cosa c’entrano questi film con l’essere gay. Halperin sottolinea che i maschi gay spesso manifestano gusti tipici molto prima di entrare in contatto con il sesso. La sessualità, secondo lui, è il campo in cui i gay si distinguono meno dagli eterosessuali: l’uomo in calore è un animale uniforme. Il gusto gay è qualcosa di più singolare, probabilmente legato alla precoce sensazione di essere diversi dai propri coetanei. Questa alienazione può essere avvertita in classe, negli spogliatoi, a casa di amici in cui si scopre il porno etero. Quale che sia la modalità, l’esperienza ha un impatto profondo, paragonabile a un trauma senza causa apparente. Una reazione diffusa è la chiusura preventiva. Il ragazzo si nasconde in un’oscura ricerca estetica. La mia indifferenza verso Il mago di Oz non mi ha impedito di diventare un caso tipico: a dieci anni avevo sviluppato una particolare predilezione per le sinfonie austrogermaniche.
Naturalmente la passione per i classici di Hollywood o per il design d’interni non è sempre un segno rivelatore. Un sacco di ragazzini etero fuggono dagli spogliatoi per andare a scuola di teatro e un sacco di ragazzini gay sono ottimi sportivi. Ma che il gusto gay tenda a manifestarsi in dall’infanzia è un fatto noto, anche se non dimostrato scientificamente. Con il senno di poi, la mia mania per Beethoven potrebbe essere stata un modo per prevenire il riconoscimento della mia sessualità: invece di espormi, sparivo in un regno incorporeo. Halperin coglie un’altra dimensione in questo tipo di impegno: una caparbia resistenza al branco dei maschi adolescenti, quasi una forma di dissidenza politica. Quella del fanatico esteta dodicenne potrebbe essere una forma di disobbedienza culturale.
L’elemento più insidioso della cultura gay maschile è il ruolo delle donne. Le femministe hanno a lungo colto una vena di scherno misogino negli spettacoli delle drag queen e nelle reazioni divertite dei gay di fronte a scene di film melodrammatiche, come per esempio la furia verbale di Joan Crawford verso la figlia distante e ingrata nel Romanzo di Mildred. Halperin li considera invece segnali di una complessa identificazione. Crawford mantiene un tono impeccabilmente acuto pur oscillando tra “glamour femminile” e “abiezione femminile”, due estremi in cui lo spettatore omosessuale medio può facilmente riconoscersi. Tanti ragazzini gay si sforzano di presentare una facciata rifinita al mondo, e tanti sono assillati dalla paura di vederla rovinata da qualche grottesca rivelazione.
Allo stesso tempo, sprofondare nell’abiezione può essere liberatorio: Halperin la chiama la “politica dell’emozione”, della “perdita di controllo”, della “rabbia legittima e trionfante”. Il ragazzo del fastfood, nonostante la tenuta da studente di college, aveva qualcosa di Joan Crawford. Inoltre, come afferma la teorica femminista Judith Butler, le stravaganti pose da diva, e più ancora gli spettacoli di drag queen che le riprendono, rivelano il carattere artificiale dei ruoli di genere convenzionali, “lo status iperbolico della norma in sé”. Come scrive Halperin, “ogni identità è un ruolo o un atto”. Solo che l’interpretazione di un eterosessuale è giudicata subito autentica. Dopo aver dato una definizione plausibile della cultura gay, Halperin si interroga sul suo destino. La sua scomparsa è stata annunciata più volte, spesso con impazienza. Già nel 1944 Robert Duncan si diceva stanco dei riti del camp. Negli anni novanta andava di moda l’espressione “post-gay”, per indicare la vita fuori del ghetto, e nel 2005 Andrew Sullivan annunciava “la fine della cultura gay”. Eppure, il camp sembra tornare sempre per un ultimo giro di saluti. Chris Colfer, l’attore effeminato che è diventato la star di Glee, ha rilanciato il culto di Judy Garland e Barbra Streisand tra la generazione del nuovo millennio.
 Intanto, nel mondo etero la paura mortale di essere scambiati per gay si sta indebolendo. Halperin avrebbe potuto scrivere un capitolo sull’analisi semiotica di Call me maybe, la canzoncina pop di Carly Rae Jepsen che ha scalato tutte le classifiche l’estate scorsa, in parte grazie ai video su YouTube in cui tutti, da Justin Bieber a Colin Powell, la interpretano. Il video ufficiale dà alla canzone un taglio queer fin dall’inizio: la cantante vede un ragazzo seminudo che taglia l’erba del prato, chiede di stabilire un contatto telefonico e poi scopre, costernata, che il ragazzo preferisce i suoi simili. Una delle sequenze più popolari vede protagonisti i giocatori della squadra di baseball di Harvard, in tutto il loro maschio splendore. Questo giocare a sembrare gay sarebbe stato impensabile fino a una generazione fa. Allo stesso modo, era chiaro che don’t ask don’t tell, la legge che permetteva agli omosessuali di arruolarsi nell’esercito solo a patto che tenessero segreto il proprio orientamento sessuale, aveva i giorni contati quando i soldati nelle zone di guerra hanno cominciato a difondere video in cui incedono con fare ammiccante al ritmo di Blah blah blah di Kesha. A volte gli etero possono sembrare molto più finocchi dei finocchi.
È particolarmente vero quando, come scrive Halperin, i gay “si compiacciono della loro monotonia, banalità e ordinarietà”. Halperin si dispiace anche dell’aumento dei siti d’incontri, che secondo lui stanno uccidendo la caotica varietà dei locali gay. Altri studiosi hanno criticato la nuova normalità gay. Il più influente è Michael Warner, professore a Yale, che nel suo libro del 1999 The trouble with normal attacca i vincoli del matrimonio, sia gay sia etero, celebrando invece i porno shop, i sex club, i locali da rimorchio e altri luoghi di quello che chiama “l’ethos queer”. Secondo questi studiosi, l’immaginario della relazione sana e i discorsi sul potere del “dollaro gay” tradiscono una collusione con il conservatorismo sociale, il capitalismo di mercato e perfino l’imperialismo statunitense.
Essendo un gay con un marito e tre gatti, mi sento toccato ma non convinto da questa critica della vita domestica. L’ethos queer ha i suoi confini, il suo fondamentalismo: l’idea che chiunque si sposi tradisca l’essenza bohémienne dell’omosessualità. Entrambi i campi tendono a ridurre la frastornante varietà delle vite gay a una condizione ideale: o batti i bar o curi il tuo giardino nelle Berkshire hills. Si possono fare tutte e due le cose, o magari, con il tempo, passare gradualmente da una all’altra. Ci sono enigmi dell’amore e del desiderio che l’ideologia non potrà mai risolvere.
Halperin, però, ha ragione a difendere i vecchi rituali, con il loro gergo e il loro linguaggio del corpo. Le persone che corrispondono agli stereotipi classici – i cosiddetti queer, froci, finocchi, checche – sono state maltrattate in tutte le epoche, quale che fosse l’atteggiamento verso i rapporti tra persone dello stesso sesso. L’insulto “magnus cinaedus” – sostanzialmente “frocione” – si trova scritto su un muro di Pompei. Lunga vita al camp, dunque, e a tutte le espressioni culturali che i gay hanno sempre abbracciato. Forse la storica dedizione al teatro, all’opera, all’alta moda e ad altre venerabili discipline svanirà. Ma è probabile che molti ragazzini gay continueranno a vivere il trauma della diversità e a rifugiarsi in dimensioni più artistiche.

Gesù e il centurione
Scorrere l’accidentata storia del movimento gay vuol dire confrontarsi con l’imprevedibile dinamica della bigotteria. Negli anni cinquanta i pregiudizi sembravano inamovibili, eppure i loro effetti erano arbitrari: distruggevano alcune vite lasciandone intatte altre. L’intolleranza ha la capacità di dissolversi in un posto e diventare micidiale in un altro. Nelle grandi città statunitensi essere gay non è mai stato così semplice. In alcune cittadine religiose potrebbe non essere mai stato così difficile. Mentre gli omosessuali statunitensi chiacchierano delle loro vittorie, quelli iraniani vivono in un mondo medievale fatto di frustate e impiccagioni sulla pubblica piazza.
Una domanda essenziale mi ronzava in testa mentre sfogliavo decine di volumi di storia e teoria dell’omosessualità. Perché questo piccolo segmento della popolazione mondiale si è attirato tante vessazioni nei secoli? Cosa ispira un disprezzo così profondo, disprezzo che si trova nelle scritture di varie religioni? Crescendo ho frequentato una chiesa greco-ortodossa, dove ho fatto il chierichetto la prima volta a dieci anni. Poi sono andato a un liceo episcopale. Anche se non ricordo di aver sentito mai denunciare l’omosessualità in quei posti, è lì che ho scoperto i due messaggi antigay più virulenti della tradizione cristiana, e mi hanno entrambi spaventato e disorientato. San Tommaso d’Aquino afferma che “il peccato contro natura” è tra le offese più gravi, perché implica “la corruzione dei princìpi, da cui tutto il resto dipende”. Una reazione sproporzionata: come scatenare un bombardamento a tappeto contro un obiettivo inafferrabile.
Se nell’occidente secolarizzato l’ostilità verso i gay è diminuita, è probabilmente perché ci si è resi conto che l’omosessualità non è una scelta, uno “stile di vita”, ma è una vita. Ho saputo di essere gay molto prima di incontrare consapevolmente un gay. Ho fatto coming out prima di fare sesso. Non è stato uno stile di vita ad attirarmi: semmai mi ha respinto. Alcune recenti ricerche scientifiche hanno provato a dimostrare che l’omosessualità avrebbe basi genetiche. Nel suo libro del 2010 Gay, straight and the reason why, il neuroscienziato Simon LeVay mi ha rivelato che il terzo nucleo interstiziale del mio ipotalamo anteriore è probabilmente più piccolo di quello della maggior parte degli uomini eterosessuali. Se i gay nascono tali, diventa più difficile considerarli dei peccatori o picchiarli.
Eppure molti storici gay evitano di descrivere l’omosessualità come una categoria fissa e trascendente. Da quando Michel Foucault ha pubblicato il primo volume della sua Storia della sessualità nel 1976, l’identità sessuale è stata spesso presentata come un “costrutto sociale”, per dirla in gergo. David Halperin si è fatto conoscere come studioso foucaultiano. Nel suo One hundred years of homosexuality, del 1990, racconta quanto i costumi dell’antica Grecia fossero diversi dai nostri. I rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso erano considerati normali entro certi limiti stabiliti: un uomo adulto poteva imporli a ragazzi, stranieri o schiavi, ma sottomettere un proprio pari era disonorevole. A quanto pare molti greci si comportavano così non perché fossero geneticamente diversi ma perché tanti altri lo facevano.



Se non ha senso parlare di una dicotomia gay/etero al tempo degli antichi greci e romani, è altrettanto assurdo inserire la parola “omosessualità” nell’Antico e nel Nuovo testamento, come succede in alcune traduzioni moderne. God believes in love, il breve testo del vescovo Gene Robinson elogiato da Barack Obama e Desmond Tutu, lo ribadisce più volte. Robinson è il prete episcopale gay che, con la sua elezione a vescovo del New Hampshire nel 2003, ha favorito il semi-scisma della chiesa anglicana. Il suo saggio comincia con il racconto di un’infanzia e di una giovinezza confuse. Ma quelle difficoltà non hanno mai messo in crisi la sua fede. Robinson si è anzi convinto che nascondere la propria sessualità voglia dire mentire a Dio.
Esaminando i passaggi della Bibbia che condannano gli atti omosessuali, Robinson sottolinea lo scarto tra pratiche antiche e moderne. San Paolo, nella Lettera ai romani, inveisce contro ogni tipo di fornicatori, compresi gli uomini e le donne che compiono atti “contro natura”. In un altro punto usa il termine arsenokoitai, un suo neologismo, che significa più o meno “uomini che giacciono con gli uomini”. San Paolo alludeva verosimilmente ai rapporti tra ragazzi e uomini più anziani, poiché erano quelli i rapporti omosessuali più comuni all’epoca. “Vogliamo davvero”, si chiede Robinson, “fondare la nostra condanna di un intero gruppo di persone sulla traballante traduzione di un’insondabile parola greca?”.
Le vaghe accuse di san Paolo si sono irrigidite fino a diventare un dogma all’inizio dell’era cristiana. San Giovanni Crisostomo raggiunse la terribile conclusione che la sodomia era peggio dell’omicidio: “L’omicida separa solo l’anima dal corpo, mentre costoro distruggono l’anima all’interno del corpo. Perché dovrei dire non solo che sei diventato una donna, ma che hai perso la tua virilità”. Il problema del sesso tra uomini, in altre parole, è che insidia la dominazione maschile. I greci e i romani applicarono la stessa logica nel criticare gli uomini effeminati.
Com’è noto Gesù sorvola sulla questione dell’omosessualità. In un passo del Nuovo testamento, il suo silenzio salta quasi agli occhi. Dal vangelo di Matteo: “Entrato in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava: ‘Signore, il mio servo (pais) giace in casa paralizzato e soffre terribilmente’. Gesù gli rispose: ‘Io verrò e lo curerò’. Ma il centurione riprese: ‘Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch’io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Fa’ questo, ed egli lo fa’. All’udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: ‘In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande’”. Questo passaggio ha scatenato una guerra d’interpretazioni sul senso della parola pais. Il centurione di fatto dice “il mio ragazzo”, e alcuni teologi filogay ne hanno dedotto che la relazione fosse sessuale e che Gesù benedicesse implicitamente quell’unione. Per quello che sappiamo della vita privata dei centurioni, l’ipotesi non è campata in aria. Nel Simposio di Platone e in molte altre fonti, un pais è un ragazzo amato da un uomo più anziano. Ma è anche possibile che il ragazzo fosse solo un servo: il termine è ambiguo. La cosa che colpisce è che Gesù non sembra affatto interessato a chiarire quell’ambiguità. Per lui conta solo la fede del centurione. 
A dispetto delle imprecazioni della destra religiosa, le chiese statunitensi sono stracolme di gay. Qualche anno fa un pastore evangelico ha scoperto, con sorpresa, che il 60 per cento dei gay e delle lesbiche considera la fede “molto importante” nella propria vita. Di recente una chiesa metodista di Columbus, nell’Ohio, ha annunciato che i parrocchiani erano più che raddoppiati da quando si era aperta ai fedeli omosessuali. Questo afflusso potrebbe essere legato alla fragilità di molte vite omosessuali. Ancora oggi, lasciarsi andare a desideri repressi nell’età adulta può provocare un caos sconosciuto a molti eterosessuali socialmente protetti. Il sito Gaychurch.org elenca settemila chiese che riconoscono i gay. 
Certo, non tutte le chiese reagiranno allo stesso modo. È possibile, come ha detto una volta il cardinale John O’Connor, che la chiesa cattolica sosterrà che l’omosessualità è un peccato “fino alla fine del mondo”. La storia recente, però, ci insegna che il cambiamento può essere rapidissimo. Ho avuto questa sensazione quando, all’inizio del 2012, mi sono ritrovato nella cappella del mio liceo, a parlare a un incontro dell’Alleanza gay-etero della scuola. L’esistenza di un gruppo simile era già di per sé sbalorditiva. Per di più l’incontro si svolgeva in un luogo religioso. Facevo fatica a trovare le parole, non solo perché mi sentivo un alieno sbarcato dall’epoca della Mattachine society (nel pubblico non c’era quasi traccia del terrore che avevo conosciuto io), ma anche perché avevo davanti un’immagine di Cristo in croce. Ho scacciato l’antica sensazione di essere fuori luogo, qui o altrove. Alla fine ho balbettato grosso modo quello che Robinson spiega molto bene nel suo libro: non c’è nulla, negli insegnamenti di Gesù, che ostacola il riconoscimento delle relazioni omosessuali profonde. Il titolo del libro di Robinson ci dice anzi che Dio le approva. Linda Hirshman, in Victory, sostiene che il movimento gay ha espugnato una fortezza di odio grazie alla forza della sua “certezza morale”. E questa certezza è radicata nella convinzione che un amore duraturo non può essere peccato. 
Non riesco a definire in modo coerente le mie attuali convinzioni spirituali, ma ho sulla scrivania un’edizione tascabile della Bibbia di re Giacomo. In questi giorni la apro non solo per assorbire la grandiosità della lingua, ma per lottare con quello che dice. Sarà perché è cominciata una nuova stagione politica, in cui i diritti dei gay sono sottoposti a voti e revisioni giuridiche, ma nella storia di Gesù e del centurione ho visto una parabola sui meccanismi della compassione nelle stanze del potere: la pietà del centurione verso un subalterno, la pietà di Gesù verso uno sconosciuto assente. Chi è al potere avverte invisibili freni alla propria libertà di azione. Anche quando vuole fare del bene, perde il sangue freddo. Eppure a volte non dovrebbe far altro che dire soltanto una parola.



L’AUTORE

Alex Ross è il critico musicale del New Yorker.
In Italia ha pubblicato Il resto è rumore e Senti questo (Bompiani 2009 e 2011).

25 commenti:

  1. Mi sento in dovere di ringraziarti per aver condiviso questo splendido articolo. Grazie.

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    1. Prego. :)
      Io l'ho trovato ricco di spunti, molto interessante. Mi fa piacere che questa lettura possa essere utile anche ad altri

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  2. Gran bell'articolo. Grazie per la condivisione. Mi ha colpito molto la parte finale con il legame religione..

    I libri antichi andrebbero conservati e non vissuti alla lettera.

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    1. Interessante per me l'interrogativo del perchè le religioni si sono accanite nel corso della storia contro gli omosessuali. E interessante la lettura fatta dal prete episcopale gay sul "Gesù non omofobo" partendo proprio dalle scritture.

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  3. nota tecnica: il film "Il romanzo di Mildred" qui citato, in Italia è noto col titolo "Mammina cara".
    questo per il vecchio vizio autoctono di tradurre i titoli dei film stranieri "ad canis penem"..

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    1. Credo ti stia confondendo.
      Non sono esperto di cinema come te e non ho visto nessuno dei due film.
      Ma "Il romanzo di Mildred" a cui si riferisce l'articolo credo sia proprio "Mildred Pierce", Oscar nel 1946, con Joan Crawford come attrice. http://www.imdb.com/title/tt0037913/

      "Mammina cara" è invece un film biografico sull'attrice Joan Crawford, e il titolo originale è "Mommie Dearest"
      http://www.imdb.com/title/tt0082766/

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    2. Ha ragione In(co).
      Il romanzo di Mildred (titolo originale Mildred Pierce), tra l'altro è stato rifatto da poco come miniserie tv in America con protagonista Kate Winslet, nel ruolo reso indimenticabile da Joan Crawford.
      Io sono un appassionato di cinema e consiglio caldamente la visione del film originale, quello del 1945, che consegnò alla storia uno dei migliori ritratti femminili mai trasposti sullo schermo.
      Bellissimo questo articolo, pieno di un sacco di riferimenti, di idee e di spunti interessanti. Grazie mille In(co), davvero!

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    3. ok ok, mi dichiaro colpevole vostro onore!
      cmq non conosco sto classicone del 45, a quanto pare una pietra miliare della queer culture.
      beh, cercherò di rimediare; anche se non credo che sia un film affittabile da Blockbuster (ammesso che ne esista ancora qualcuno..)

      mi perdona, o sommo?

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    4. Io non ti posso ne condannare ne perdonare perchè non l'ho mai visto neppure io, eh eh. Vedo comunque che è reperibile in dvd, pubblicato nel 2012. Su ibs.it c'è, vedrò di procurarlo.
      Ammetto però che l'altra pietra miliare queer (Il mago di Oz) non mi è mai, proprio mai piaciuto :/

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    5. @Nick88 - quindi tu già lo conoscevi? Ma lo passano anche in tv? Mai capitato di notarlo...

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    6. Sì, lo conosco. Purtroppo in tv è ormai difficile reperire questi film d'annata. Qualcosa passa ancora su rete 4 nel pomeriggio e su reti regionali dalle mie parti. Io ce l'ho in dvd e potrei passarvelo se siete interessati.
      Cmq volevo chiarire che "Mildred Pierce" non è un queer movie. Non c'è nessun riferimento queer, neanche lontanamente. Può interessare alla comunità gay nella misura in cui essa stessa subisce il fascino della sua protagonista che con il suo talento drammatico, il piglio volitivo, l'immagine di donna forte e autonoma, si è conquistata sin da subito l'affetto di milioni di fan, anche omosessuali. Un po' la stessa cosa che vale per la sua eterna rivale Bette Davis. E sono contento che questo articolo parli anche di queste icone, che grande significato hanno avuto in un'epoca in cui nel cinema si negava l'esistenza dell'omosessualità.
      Per gli appassionati di cinema e di queer movies, consiglio anche il bel documentario "Lo schermo velato", che passa in rassegna tutti (o quasi) i riferimenti all'omosessualità maschile e femminile nel cinema di Hollywood dai tempi del muto agli anni della piaga dell'AIDS. Un documento interessantissimo. ;)

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    7. "Lo schermo velato" lo conosco..
      cmq mi spiego meglio cosa intendo per "queer culture"; testi, canzoni o film (come in questo caso), che, pur non essendo espressamente pensati per un target gayo, son diventati delle pietre miliari per la storia della comunità, soprattutto americana.
      L'esempio migliore che mi viene in mente è Judy Garland con "Over the rainbow".

      Noi in questo siamo più camp, visto che spesso non andiamo oltre la Carrà o "Comprami" di Viola Valentino (una che se non ci fossimo noi gay non si ricorderebbe più nessuno..)

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    8. Molto interessante questo "Lo Schermo Velato". Purtroppo mi risulta che non sia stato pubblicato in dvd. O mi sbaglio?

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    9. @ freedog,
      Sì, io avevo inteso benissimo il senso del termine, ma era per chiarire a chi magari si aspettava un film con riferimenti chiari. Cosa che, tra l'altro nel 1945, nel pieno del codice Hays, era impensabile ;)
      Cmq permettimi di dissentire sui gusti dei gay italiani. E' vero che c'è tanto kitch (ma anche all'estero, eh), ma la comunità gay è stata anche quella che ha osannato quando non ne ha decretato proprio il successo di personalità come Mina e la Patty Pravo degli anni d'oro, la Lollobrigida, Helmut Berger.. Ok non abbiamo avuto Joan Crawford e Bette Davis, ma si sa, gli americani hanno un talento nell'esaltare i loro di talenti :)

      @ In(co): No, credo non sia stato pubblicato in dvd. Anzi è difficile già reperirlo doppiato in italiano.

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  4. Tu parli della "nostra" società..però nel leggere quello che è l'iter americano per i diritti dei gay non la sento mia. La realtà del nostro paese purtroppo è ancora diversa,specialmente nei piccoli paesi! Ovviamente è un parere..ovviamente riconosco che è il singolo che fa coming out che cambia le cose e che allontana la visione distorta dell'omosessualità,ma io quel coraggio ancora non ce l'ho..non nella realtà in cui vivo! In tutto questo vince l'ottimismo però:)!
    Interessantissimo comunque tutto l'articolo, grazie Inco!
    Merc

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    1. Hai perfettamente ragione. Ho semplificato, sbagliando, intendendo un generico "nostra società" per "società occidentale", compresa la nostra, influenzata dal modello (perlomeno mediatico) americano. Ma sì, le differenze sono ancora ampie.

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    2. ...è un "nostra" benaugurante:D! Merc

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  5. grazieee..lo stavo giusto cercando (gratis) dopo aver visto l'anteprima ;) interessante analisi devo dire.e con imedesimazione. ciao

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    1. Mi fa piacere riscontrare l'interesse di altre persone su questo articolo. Devo dire che, secondo i miei gusti, Internazionale seleziona bene gli articoli da pubblicare.

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  6. Io ho avuto il piacevolissimo piacere di leggerlo su Internazionale ed è stato davvero interessante, pieno di spunti e di informazioni sul mondo gaio, alcune delle quali a me sconosciute, forse troppo giovane XD comunque davvero interessante mi sarebbe piaciuto di più se fosse stato un po' più approfondito ma capisco anche gli spazii di giornale, quindi si prendono gli spunti e si approfondirà personalmente ;)

    Grazie per le tue riflessioni!!

    Baci

    Fede_Broc

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    1. Ancora più approfondito? 6 pagine fitte fitte equivalgono a una tesi di laurea per un giornale!
      Credo che si tratti, appunto come dici tu, poi di approfondire personalmente i temi che più interessano.

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  7. Sticazzi. un po lunghetto è dire poco. Ma è veramente una miniera di informazioni. Davvero bella la letttura... e fa anche capire che, per quanto noi ci lamentiamo che siamo in Italia, che abbiamo il papa, ecc... si vede che anche all'estero se i diritti si vogliono bisogna lottare... e alla fine la società può anche cambiare

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    1. Quando mi sono approcciato all'articolo su Internazionale e vedendo che era spalmato su 8 pagine fitte fitte stavo per passare oltre. Poi ho iniziato la lettura e mi ha coinvolto. Leggero non è e andrebbe letto più volte per cogliere bene il tutto. Ma mi ha davvero dato molti spunti e ho voluto annotarmelo qui prima di gettar via la rivista

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  8. Bell'articolo, ho trovato particolarmente interessante la parte riguardante la teoria di Halperin, cioè la precoce sensazione di essere diversi dai propri coetanei.
    Tutto l'articolo fa riflettere su quanto abbiano lottato in America per ottenere i diritti, mi viene in mente il film Milk come esempio, e mi sorge immediato un confronto con la nostra Italia. C'è ancora molto da migliorare, mi chiedo se si raggiungerà mai il livello americano e in quanto tempo sarà possibile.
    Non è certo una domanda dalla facile risposta.

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    1. Anch'io mi sono interrogato sulla teoria di Halperin.
      E chissà che non ne nasca anche un post, in futuro.

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